Uno sguardo inedito e leggero sulla vita in laboratorio: immagini realizzate dai ricercatori dell’ SR-Tiget raccontano passione, impegno e quotidianità dietro ogni traguardo.

Dimenticate il genio solitario chiuso nel suo la­boratorio e le scoperte rivoluzionarie frutto di intuizioni improvvise: il lavoro del ricercatore non è quello descritto nei romanzi e nei film. In cosa consiste questo percorso professionale impegna­tivo, ma appagante e affascinante? Come si svolge l’atti­vità quotidiana negli studi e nei laboratori, quali legami si formano tra i colleghi che condividono lo stesso impe­gno e gli stessi obiettivi? Quali sono le abilità richieste a chi vuole intraprendere questa strada?

Ecco la realtà die­tro le quinte, raccontata dai suoi protagonisti: Martina Fiu­mara e Piergiuseppe Quarato, ricercatori post-dottorato, e Michela Milani, project leader all’Istituto San Raffaele Te­lethon per la Terapia Genica di Milano. La sveliamo attra­verso cinque parole chiave.

Conoscenza

Tutto ha inizio con la parola “conoscen­za”. L’obiettivo a cui mira da sempre la ricerca scientifica e che spinge tanti giovani a intraprendere questa strada. Nel corso della storia l’essere umano ha svelato tanti segreti della natura ma tanti ancora sono un terreno sconosciu­to da esplorare. «Quella che ci guida nel nostro lavoro è la passione di scoprire», dice Piergiuseppe Quarato, che si occupa di epigenetica, cioè l’insieme dei meccanismi che regolano l’espressione dei geni nelle cellule (nel suo caso, in particolare, le cellule staminali del sangue). «Attraverso il nostro lavoro, ci impegniamo ad affrontare interrogativi tuttora senza risposta. Lungo la strada spesso incontriamo ostacoli, a volte risultati inaspettati che ci impongono di fermarci e ricalcolare il nostro percorso. Alla fine, però, im­pariamo sempre qualcosa di nuovo. Questo è il bello del­la ricerca».

Le battute d’arresto possono essere frustranti, ma il gioco vale la candela. «A volte sembra di avere un’i­dea brillante, poi improvvisamente scopri che l’ipotesi che stavi seguendo era sbagliata», osserva Michela Milani, che si occupa di terapia genica per le malattie genetiche ra­re del fegato e del sangue. «A volte invece c’è il risultato che ti permette di spingere un po’ più in alto l’asticella del­la conoscenza e allora ti rendi conto che sei il primo a ca­pire una cosa che nessun altro conosce al mondo, per­ché l’hai appena scoperta. E questo per me è impagabile».

Impegno

Progredire nel cammino della conoscenza ri­chiede tanto lavoro. Ed ecco la nostra seconda parola: “impegno”. «Prima di tutto viene lo studio» spiega Mar­tina Fiumara, che indaga su come correggere i difetti ge­netici delle cellule staminali del sangue. «Bisogna tenersi informati, leggere i lavori che quotidianamente vengono pubblicati in tutto il mondo. È attraverso lo studio che ar­riviamo a formulare idee, ipotesi. Poi dobbiamo progetta­re e condurre esperimenti per metterle alla prova con ri­gore scientifico. In questa fase il lavoro è anche manuale. I dati raccolti devono essere analizzati e interpretati e, in­fine, se tutto va bene, l’auspicio è quello di pubblicare i ri­sultati per condividerli con tutta la comunità scientifica».

Il lavoro del ricercatore ha orari e ritmi diversi da quelli di tante altre professioni. «Nei nostri esperimenti utilizzia­mo campioni biologici che a volte richiedono procedure con tempi che non sono compatibili con l’orario di uffi­cio. Magari c’è bisogno di rimanere più a lungo o anche di passare la notte in laboratorio. Ci si organizza», dice Piergiuseppe. «Spesso non vogliamo interrompere quello che stiamo facendo per passione, perché non sai mai quan­do può arrivare il risultato che stai aspettando da mesi. Bi­sogna imparare a trovare un equilibrio tra il lavoro e la vi­ta personale».

Errore

Il percorso della ricerca non è sempre linea­re, dall’ipotesi al risultato passando per gli esperimenti. Al contrario, spesso è circolare, perché magari un espe­rimento non riesce come era previsto e allora deve esse­re nuovamente progettato e ripetuto: Oppure l’ipotesi si dimostra infondata e bisogna tornare al passaggio prece­dente, studiare per formularne una nuova. La nostra ter­za parola, “errore”, è parte della natura stessa della ricer­ca scientifica.

«A volte sbagliamo, a volte si verifica un inconvenien­te indipendente dalle nostre azioni, come il malfunziona­mento di uno strumento, oppure un altro imprevisto», di­ce Martina. «Per questa ragione, quando progettiamo il nostro lavoro, prevediamo sempre un piano B. Dobbiamo essere in grado di trovare strade alternative per recupera­re dopo una battuta d’arresto». D’altra parte, l’errore non è sempre necessariamente un evento negativo, un ostaco­lo. «Spesso un risultato diverso dal previsto è l’occasione per imparare qualcosa di nuovo, può guidare il ricercatore verso una nuova ipotesi», osserva Michela.

Collaborazione

Di fronte a un intoppo o quando tutto fila liscio, un ricercatore non è mai da solo. La no­stra quarta parola, “collaborazione”, è un aspetto essenziale nel suo lavoro quotidiano. «A volte per ottenere il ri­sultato a cui stiamo mirando dobbiamo portare a termi­ne decine o centinaia di esperimenti», spiega Piergiusep­pe. «Nessuno può farcela da solo. Infatti, quando viene annunciata una scoperta importante, il merito è sempre di un’équipe, mai di un singolo. Nessuno di noi è onni­sciente, ognuno ha le sue specifiche competenze e dob­biamo lavorare come una squadra, soprattutto operando in un settore di ricerca multidisciplinare come il nostro».

E quando il lavoro va a buon fine e si arriva al risul­tato tanto agognato, festeggiare insieme è ancora più bello. «Usciamo a cena, prendiamo un aperitivo, con­dividiamo una torta in laboratorio, stappiamo lo spu­mante», dice Michela. «Ecco, mangiare è il nostro mo­do di festeggiare e troviamo continuamente occasioni per fare festa, per tenerci allegri».

Cura

Se fare parte di una squadra rende il lavoro più bel­lo, fare parte di un Istituto che nel tempo ha cambiato la vita a tante persone aggiunge valore e significato all’im­pegno di ciascuno. «Siamo tutti mattoncini di un mecca­nismo più grande che ha prodotto terapie efficaci per ma­lattie per le quali prima non c’era alcuna cura» dice Marti­na. Ed ecco la nostra quinta e ultima parola, “cura”, intesa sia come trattamento per risolvere una malattia, sia come presa in carico dei pazienti e delle loro famiglie.

«L’obiettivo finale di ogni nostro sforzo non è solo arriva­re a un risultato, arrivare a una pubblicazione. Ci sono del­le vite umane in ballo e questa è la motivazione più forte che ci possa animare», conclude Piergiuseppe.

Dal Fondazione Telethon Magazine 3/2025

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