Estratti dal libro, edito da Mondadori, VERTIGINE di Beatrice Mautino. La divulgatrice scientifica ha trascorso alcuni giorni - tra corridoi, pareti di foto, silenzi e storie di cura - all’Istituto San Raffaele Telethon per la terapia genica di Milano.
«Non so se sono pronta per scrivere il libro» gli ho detto durante una passeggiata serale estiva, di quelle che facciamo quando dobbiamo srotolare pensieri, «ma mi piacerebbe passare del tempo all’SR-Tiget, fare una specie di “residency”», che poi sarebbe un periodo nel quale si frequenta un luogo come se si lavorasse lì. Non avevo un’idea precisa. Era più la sensazione che lì avrei potuto incontrare molte di quelle forze che regolano il nostro rapporto con la scienza.
Qualche mese dopo, in una fredda mattina d’inverno arrivavo a Milano, all’Istituto San Raffaele Telethon per la terapia genica - l’SR-Tiget, appunto - con uno zaino carico di gianduiotti, pronta per starci per qualche giorno ad ascoltare, registrare, osservare.
La prima cosa che si nota quando si entra nel reparto di Immunoematologia Pediatrica di cui Alessandro Aiuti è primario è la parete delle foto. È proprio all’ingresso, lungo il corridoio. Ormai sono talmente tante che hanno superato lo spazio inizialmente destinato loro dalla bacheca. Foto, disegni, ritagli di giornale. Su uno di questi si legge di un ragazzino che ha vinto una gara podistica. Un disegno con l’impronta di due mani dice “grazie per la vita”. «Foto di famiglia» mi dice Aiuti. Una famiglia allargata che, oggi, conta centinaia di membri in tutto il mondo, tutti curati da malattie terribili grazie alla terapia genica che si fa qui.
Con il “termine ombrello” di terapia genica si intendono tutte le tecniche che consentono di intervenire direttamente sul DNA per correggere un errore genetico, una mutazione o un’alterazione che provoca una determinata malattia. Se ne parla dagli anni Settanta, ma per decenni è rimasta un’idea bellissima e impraticabile. La svolta è arrivata solo negli ultimi vent’anni, con l’uso clinico su malattie rarissime. Prima in forma sperimentale, poi con i primi farmaci approvati.
«All’inizio eravamo un piccolo gruppo, con pochi spazi e strumenti limitati», racconta Aiuti. «Nel 2000 ci fu chiesto di curare Salsabil», una bambina palestinese affetta da ADA-SCID. Anche per lei, nessun donatore compatibile e un tempo che correva troppo in fretta. Ma all’SR-Tiget, sotto la guida di Claudio Bordignon, un vero pioniere del settore, si stava lavorando a una terapia completamente nuova: semplificando molto un processo che, come potete immaginare, è molto complesso, le cellule staminali sono prelevate dal midollo osseo del paziente, il loro DNA viene corretto in laboratorio inserendo una copia sana del gene ADA e, in seguito, le cellule con il gene corretto vengono reintrodotte nel paziente attraverso un’infusione endovenosa, dopo la quale alcune di queste stesse cellule ritornano nel midollo osseo e iniziano a lavorare.
Ottenute le autorizzazioni, nel settembre del 2000, volarono a Gerusalemme e somministrarono le cellule corrette a Salsabil. Qualche settimana dopo, a Milano, arrivò la notizia: la terapia stava funzionando. Salsabil fu la prima persona al mondo a essere curata con la terapia genica per l’ADA-SCID messa a punto dall’SR-Tiget di Milano. Quel gruppo «piccolo con strumenti limitati» aveva scritto una pagina della storia della medicina. Ma quel successo fu più di una singola vittoria: fu la prova che l’impensabile poteva diventare possibile. Da quella scintilla, l’SR-Tiget iniziò un percorso di crescita incredibile diventando uno dei centri di riferimento globali per la terapia genica.
Tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila frequentavo la facoltà di Biotecnologie all’Università di Torino e un giorno venne a farci lezione un giovane ricercatore, torinese di origine, che aveva passato un lungo periodo di studio e lavoro negli Stati Uniti (Luigi Naldini, direttore dell’SR-Tiget, ndr). Ci raccontò che aveva messo a punto un metodo per utilizzare il virus dell’HIV, quello che provoca l’AIDS, come “vettore” per trasportare nelle cellule le informazioni genetiche corrette e quindi, prima o poi, riuscire a curare malattie fino ad allora incurabili.
Noi aspiranti biotecnologi eravamo rapiti, ma anche un po’ increduli. Ci dicevamo che quella cosa lì, la “terapia genica” era, sì, bellissima sul piano teorico, ma figurati se la faranno mai. Cioè, dai… Ogni volta che ci penso mi viene un brivido, perché non sono molte le grandi rivoluzioni a cui possiamo assistere nel corso della nostra vita, ma in meno di un quarto di secolo, siamo passati dal progetto per visionari a una parete piena zeppa di foto di bambini che, man mano, stanno diventando grandi grazie a quella terapia.
Nei miei giorni di permanenza all’SR-Tiget ho passato diverso tempo seduta in corridoio. Avevo proprio chiesto di avere del tempo vuoto, perché ovviamente mi interessava parlare con le tante persone che ci lavorano, ma volevo anche osservare la vita del reparto. Ho quindi anche visto la macchina del “Come a casa” all’opera.
La prima mattina, mentre un medico discuteva con una coppia di genitori, una delle caregiver, le figure specializzate nell’accompagnamento di pazienti e genitori, stava seduta per terra a giocare con il loro bambino.
In un altro momento, davanti alla parete delle foto, una mediatrice culturale abbracciava e salutava una famiglia che era in partenza dopo il periodo passato all’SR-Tiget per i controlli. In un altro momento ancora, un’interprete aspettava con un po’ d’ansia l’arrivo di una mamma con un bambino.
“Come a casa” è un progetto di accoglienza di Fondazione Telethon, dedicato alle famiglie che arrivano in Italia per sottoporre i propri figli a trattamenti di terapia genica presso l’Istituto San Raffaele Telethon di Milano. Margherita Levi, coordinatrice del progetto, racconta che «il nome è stato un regalo del primo paziente che ha usufruito di questo percorso, nel 2016. Tornato a casa ci ha scritto una mail per ringraziarci di essersi sentito just like home, come a casa, appunto».
«La cosa che mi è rimasta più impressa e che ancora mi fa commuovere» mi confida Mavi, la mamma di due gemelline, Ines e Maria, trattate per l’ADA-SCID che ho incontrato, «è che qui trovi empatia. Ti senti accolto». È come una rete, mi spiega. «Noi abbiamo trovato sulla nostra strada una malattia gravissima e rarissima. Addirittura per due! Ma… - e la voce le si spezza - non siamo caduti perché c’era una rete che qualcuno ha pensato di mettere lì per noi».